Pubblicato: 15 Novembre 2016 - Categoria: Pubblicazioni

Sommario: 1. Le disposizioni di riferimento; 2. Unioni civili e filiazione; 3. I casi di scioglimento; 4. Morte o dichiarazione di morte presunta di una delle parti. Diritti successori, norme inapplicabili, diritto alle indennità lavorative; 5. Il divieto di “patti di trasferimento patrimoniale”; 6. Il ruolo del notaio nell’ambito della negoziazione assistita; 7. Il dies a quo dello scioglimento della comunione legale tra le parti dell’unione civile; 8. Scioglimento dell’unione civile per rettificazione di attribuzione di sesso.

1. Le disposizioni di riferimento.

I commi dell’articolo unico della legge 76/2016 che ci interessano sono quelli che vanno dal 22° al 26°. Devono però tenersi in considerazione anche gli effetti di altre disposizioni contenute nel nuovo testo di legge.

Mi riferisco in particolare al comma 20, che contiene la norma generale di chiusura secondo cui si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile “le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi”, con esclusione delle “norme del codice civile non richiamate espressamente”.

A pena di ritenere radicalmente incostituzionale l’intero istituto, quest’ultima disposizione va interpretata nel senso che non tutte le disposizioni del codice civile non richiamate non trovano applicazione ma solo quelle che contengano le fatidiche parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti. E di seguito si indicheranno alcune ipotesi in cui i termini in questione compaiono nella lettera della disposizione codicistica, così da impedirne l’operatività, e che inevitabilmente genereranno situazioni di iniquità e contenziosi, di difficile soluzione anche se ritenessimo di fare ricorso ad una salvifica interpretazione costituzionalmente orientata.

2. Unioni civili e filiazione.

Il discusso comma 20 esclude categoricamente la generale applicazione alle parti dell’unione civile delle disposizioni della legge 184/1983 in materia di adozione (laddove facciano riferimento, come per le norme codicistiche, al “matrimonio”, ai “coniugi” o a termini equivalenti).

“Resta fermo” – precisa il testo – “quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”.

Quest’ultima disposizione è (giuridicamente) insignificante ed è stata inserita, a mio parere, al solo scopo di chiarire (politicamente) che il legislatore non ha inteso comunque “prendere posizione” sulle prassi giurisprudenziali sviluppatesi di recente nell’applicazione della l. 184/1983.

Sia i giudici di merito che la Corte di Cassazione[1] hanno infatti ammesso l’adozione di cui all’art. 44 lett. d) L. 184/1983 del figlio del partner dello stesso sesso. Si tratta dell’adozione nei casi di “impossibilità di affidamento pre-adottivo”, e non dell’adozione del figlio del coniuge, disciplinata nella lett. b) del medesimo articolo e che appunto riguarda i casi in cui l’adottante sia il «coniuge» ed il minore (adottando) sia “figlio anche adottivo dell’altro «coniuge»”).

In questi casi – hanno ritenuto i giudici – può farsi luogo all’adozione poiché si deve salvaguardare l’interesse del minore alla conservazione di quei rapporti affettivi che lo stesso abbia allacciato in modo soddisfacente e completo con l’adottante, a prescindere dallo “stato di abbandono” e dall’esistenza di legami di coniugio tra genitore e adottante. D’altronde, l’adozione ex art. 44 lett. d) citato è consentita anche al single (cfr. comma 3 del medesimo articolo).

Va inoltre segnalato l’orientamento giurisprudenziale che, sulla scia delle decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ha dichiarato riconoscibile in Italia, perché non contrastante con l’ordine pubblico, un provvedimento straniero di adozione piena del figlio del partner omosessuale, facendo applicazione degli artt. 65 e 66 della L. n. 218/1995[2]

Tanto più che a seguito della riforma della filiazione (ex D. Lgs. 28 dicembre 2013 n. 154) l’interesse del minore ha assunto una centralità tale da essere considerato senz’altro principio fondamentale dell’ordinamento, che va tutelato a prescindere da ogni connotazione giuridica del contesto familiare in cui si esplichi la personalità del minore stesso (matrimoniale, di fatto, semel sex ecc.). Che poi la legge sull’adozione sia orientata esclusivamente alla protezione del minore è evidenziato dal suo stesso titolo: “Diritto del minore ad una famiglia”, appositamente sostituito in sede di riforma di tale legge speciale attuata con L. 28 marzo 2011 n. 149.

Va perciò smentita la sbrigativa affermazione secondo cui le parti dell’unione civile non sarebbero interessate all’applicazione del complesso di norme (sia contenute nel codice civile che in altri testi normativi) che attengono al rapporto di filiazione e alla tutela dei relativi diritti nell’ambito familiare.

Tutto ciò assume particolare rilevanza in sede successoria ma anche e soprattutto in occasione dello scioglimento dell’unione civile per volontà delle parti, dovendosi regolare in quella sede i rapporti con i figli e l’eventuale assegnazione della casa familiare ex art. 337 sexies c.c. In presenza di figli minorenni, maggiorenni incapaci o economicamente non autosufficienti, è inoltre precluso alle parti unite civilmente lo scioglimento dell’unione in via concordata dinanzi all’ufficiale dello stato civile secondo la procedura disciplinata dall’art. 12 D.L. 132/2014.

3. I casi di scioglimento.

Le unioni civili si sciolgono: per morte o dichiarazione di morte presunta di una delle parti dell’unione civile (comma 22); per scioglimento dichiarato con sentenza ex legge sul divorzio, o concordato in sede di negoziazione assistita, ovvero dinanzi al sindaco (commi 23, 24, 25); ed infine, a seguito di sentenza per rettificazione di attribuzione di sesso (comma 26).

4. Morte o dichiarazione di morte presunta di una delle parti (comma 22). Diritti successori, norme inapplicabili, diritto alle indennità lavorative.

La dichiarazione di morte presunta (artt. 58 e ss. c.c.) fa acquisire lo stato libero all’altra parte. Una volta passata in giudicato la relativa sentenza viene annotata a margine dell’atto di nascita (lett. j) art. 49 DPR 396/2000), a margine dell’atto di matrimonio (lett. g) art. 69 DPR 396/2000) ed anche a margine dell’atto di costituzione dell’unione civile (lo schema di decreto legislativo ex comma 28 dell’art. 1 l. 76/2016, all’esame del parlamento, prevede tale annotazione alla lettera g) del nuovo comma 1 bis dell’art. 69).

L’unione civile contratta dopo la dichiarazione di morte presunta diviene nulla ex nunc qualora il presunto morto sia accertato vivente o ritorni, non invece qualora sia accertata la sua morte, ancorché avvenuta in epoca successiva alla contrazione del nuovo vincolo (art. 68 c.c., che si applica in questo caso perché richiamato al comma 5).

L’unione civile, al pari del matrimonio, si scioglie per la morte di una delle parti.

In tema di successione, alla parte dell’unione civile è riconosciuta una posizione del tutto analoga a quella de coniuge del defunto, in virtù dell’evocazione delle relative disposizioni del codice civile operata dal comma 21, che “richiama espressamente” e quindi rende applicabili le norme del Libro II che si riferiscono al “coniuge”, contenute al capo III (indegnità) e al capo X (legittimari) del Titolo I, nonché nell’intero Titolo II (successioni legittime) ed infine nel capo II (collazione) e nel capo V bis (patto di famiglia) del Titolo IV.

E’ però vero che la discutibile tecnica legislativa adottata (con richiami singoli a specifiche disposizioni o a complessi di disposizioni del c.c.) potrà creare in seguito, man mano che si verificheranno i casi nella pratica, dei seri problemi di coordinamento.

E’ stato per esempio segnalato il mancato richiamo dell’art. 596 c.c. (incapacità a ricevere per testamento del tutore – ma anche dell’amministratore di sostegno stante il rinvio di cui all’art. 411 co. 2 – limite che non opera qualora il tutore o l’amministratore di sostegno sia “coniuge” del testatore). O ancora, il mancato richiamo dell’art. 692 c.c. in tema di sostituzione fedecommissaria (da un coniuge e a favore dell’altro). Oppure il mancato richiamo delle donazioni obnuziali di cui all’art. 785 c.c. (in cui compaiono letteralmente i fatidici termini «matrimonio», «sposi», «coniuge»), ovvero in tema di operatività della condizione di riversibilità nelle donazioni (art. 791 c.c.).

Compete senz’altro alla parte dell’unione la qualifica di legittimario e la riserva prevista dal codice civile per il coniuge (artt. 536 ss. c.c. capo X del titolo I del libro II) ed opera il principio generale della successione nei diritti e negli obblighi relitti dalla parte deceduta.

Permane inoltre la possibilità di sistemazione degli interessi post mortem col testamento.

Ed è proprio qui che assume massimo rilievo la sensibilità del notaio e la sua capacità tecnico-giuridica, allorché sia richiesto di assistere la parte dell’unione civile per la sistemazione di quegli interessi, soprattutto nelle ipotesi in cui l’unione civile vada ad inserirsi in un tessuto familiare precedente.

Si pensi alle famiglie ricomposte, ove le parti dell’unione civile abbiano già alle spalle precedenti relazioni coniugali e/o relative ad altra unione civile, non più incidenti sullo status ma comportanti scampoli di obblighi post coniugali o post unione (assegno divorzile o alimenti ecc.).

O ancora, dove vi siano figli nati in virtù della precedente relazione, ovvero adottati (seppur nelle forme di cui all’art. 44 lett. d) l. 184/1983 o per intervenuto riconoscimento di un’adozione avvenuta all’estero) dovendosi in questi casi garantire le posizioni di tutti i legittimari.

Si potrebbe così dare maggior risalto ad istituti come la dispensa dalla collazione (art. 737 co. 1 e 2 c.c.); come il legato in sostituzione di legittima (art. 551 c.c.) ovvero la divisione del testatore (art. 734 c.c.) che, se ben costruiti, potrebbero conseguire l’effetto di evitare l’insorgenza della comunione ereditaria con i parenti “di primo letto” ovvero scongiurare l’acuirsi dei conflitti che “normalmente” sorgono tra gli eredi in sede di divisione (soprattutto quando – come può ben accadere – la scelta di costituire la successiva unione sia stata il frutto di un percorso personale di presa d’atto o di modifica del proprio orientamento sessuale, scelta che non sia stata accettata dai familiari o persino ostacolata dagli stessi)[3].

La parte dell’unione civile superstite gode inoltre della riserva dei diritti di abitazione sulla casa familiare e di uso dei suoi arredi (art. 540 co. 2 c.c.) se di proprietà del defunto o comuni.

Non si applica invece - nonostante sia richiamato nel blocco di norme di cui al comma 21 - l’art. 548 c.c. che riserva un assegno vitalizio a favore del coniuge separato cui sia stata addebitata la separazione, se godeva già degli alimenti al momento dell’apertura della successione (ciò perché la separazione non è istituto applicabile alle unioni civili).

Per contro, in caso di morte della parte dell’unione civile, il cui vincolo sia stato sciolto a seguito di divorzio, potrebbe sussistere il diritto all’assegno successorio, che compete al coniuge divorziato già titolare di assegno e che si trovi in stato di bisogno, beneficio questo riconosciuto e disciplinato dall’art. 9 bis della legge sul divorzio (n. 898/70) la cui applicabilità alle unioni civili è espressamente disposta al comma 25.

E’ bene rammentare però che tale diritto è escluso in caso di assegno una tantum concordato in occasione del divorzio e che, ove dovuto, sarà possibile per gli eredi liquidarlo concordemente in unica soluzione (cfr. art. 9 bis co. 2).

Va segnalato, con riferimento all’evento morte, che la parte dell’unione civile è parificata al coniuge con riguardo al diritto a percepire l’indennità di mancato preavviso e il TFR. Ciò è previsto in maniera esplicita dal comma 17 che richiama appunto gli artt. 2118 e 2120 c.c. disponendo che dette indennità debbano corrispondersi, in caso di morte del prestatore di lavoro, “anche alla parte dell’unione civile”.

Il legislatore ha dimenticato però di richiamare la disposizione (art. 2122 c.c.) [4] che ne disciplina la ripartizione tra gli aventi diritto, tra i quali compaiono il “coniuge” e persino “gli affini”.

L’affinità è il vincolo tra un coniuge e i parenti dell’altro coniuge. Tale vincolo si ritiene comunemente non sorga tra le parti dell’unione civile, poiché l’art. 78 c.c. (che costituisce la fonte normativa cui riferirsi) non è stato richiamato espressamente dalla legge e cade sotto la scure dell’inapplicabilità di cui al comma 20. Né serve al contrario sostenere che gli affini compaiono nell’ordine degli obbligati agli alimenti ex artt. 433 e 434 c.c., questi sì richiamati al comma 19. Si è ritenuto, infatti, che il richiamo agli obblighi alimentari tra affini “sia privo di effetti” in quanto il relativo vincolo non può sorgere ontologicamente, non godendo l’unione civile della medesima “capacità espansiva del matrimonio” e i cui effetti “sostanzialmente riguardano solo i membri della coppia che la costituiscono”[5].

Si aggiunga che il diritto alle indennità del lavoratore defunto opera iure proprio e che i criteri di ripartizione secondo la successione legittima vengono applicati solo in via residuale (cfr. art. 2122 co. 3 c.c.).

Va ricordato peraltro che “è nullo ogni patto anteriore alla morte del prestatore di lavoro circa l'attribuzione e la ripartizione” di queste indennità (art. 2122 ultimo comma c.c.). Il che inibisce alla parte dell’unione civile lavoratrice la soluzione del conflitto in via preventiva tramite un apposito “patto” stipulato in vita.

L’omesso richiamo dell’art. 2122 c.c., oltre che macchiare di sospetta incostituzionalità il comma 17, lascia sin d’ora presagire l’insorgenza di conflitti tra gli aventi diritto e un possibile incidente di costituzionalità, apparendo alquanto impraticabile un’interpretazione costituzionalmente orientata e senz’altro escluso il ricorso all’analogia, stante il carattere eccezionale e tassativo dei richiami al codice civile contenuti nella legge.

4. Scioglimento dell’unione civile per volontà delle parti (commi 23, 24, 25).

L’unione civile si scioglie poi per volontà delle parti nei casi previsti all’art. art. 3 della L. n. 898/1970 (legge divorzio), con esclusione delle ipotesi di inconsumazione del matrimonio (lungi da questo legislatore ogni riferimento anche indiretto alla comunione in corporis delle parti dell’unione), di rettificazione di sesso (ipotesi questa disciplinata quale autonoma causa di scioglimento dal comma 26), ed infine per precedente separazione legale.

Le ipotesi previste dall’art. 3 della legge n. 898/1970 contemplano la possibilità di chiedere direttamente il divorzio – a prescindere dalla pregressa separazione - in conseguenza di condanne penali assai gravi pronunciate a carico dell’altro coniuge, ovvero quando questi si sia macchiato di specifici reati contro la famiglia o i suoi componenti.

Al di fuori delle ipotesi penalmente rilevanti l’art. 3 prevede poi lo scioglimento nel caso in cui l’altro coniuge straniero abbia ottenuto all’estero l’annullamento, lo scioglimento del matrimonio, ovvero abbia contratto un altro matrimonio.

Nella prassi la causa di scioglimento dei matrimoni numericamente più ricorrente è quella prevista alla lettera b) del nr. 2 dell’art. 3, costituita dalla pregressa separazione personale.

Il comma 23 della legge in esame esclude però espressamente l’applicabilità alle unioni civili di questa causa di divorzio. Le coppie costituite in unione civile pertanto non si separano e questo sembra essere un dato ormai concordemente ammesso dalla dottrina, ancorché vi sia qualche voce isolata (per quanto autorevole[6]) che, in virtù di un’interpretazione sistematica dell’intero corpo normativo della legge in esame, ammette l’applicabilità della disciplina sostanziale della separazione anche per le coppie unite civilmente. Si verrebbe così a creare per i partners dell’unione civile – secondo la citata dottrina – quella possibilità di scelta tra separazione e divorzio che è concessa in molti Paesi, nei quali è mantenuta per tradizione storica la separazione ma è concesso ai coniugi di ricorrere, in alternativa, al c.d. divorzio immediato.

Le norme sostanziali che disciplinano l’istituto della separazione, tuttavia, sono contenute negli artt. 150-158 del codice civile e dette disposizioni non risultano richiamate in nessuna norma della legge in esame; stante l’operatività della disposizione “selettiva” di cui al comma 20 non potrà perciò farsene applicazione nei confronti delle parti dell’unione civile. Ciò non è smentito dalla circostanza che il comma 25 disponga l’applicabilità “in quanto compatibili” - tra le tante - delle “disposizioni di cui al titolo II del libro IV del c.p.c.” (artt. 706 – 742-bis) intitolato: Procedimenti in materia di famiglia e di stato delle persone.

Si tratta infatti di norme di natura processuale in parte riguardanti le disposizioni generali applicabili al rito camerale, rito questo utilizzato di default nei procedimenti in materia di famiglia e di stato (cfr. art. 742 bis c.p.c. e 38 co. 3 disp. att. c.c.).

Il rinvio può dunque spiegarsi, tenuto conto della clausola di compatibilità di cui al comma 25 che appunto le richiama - solo con riferimento a quelle singole disposizioni che, pur trovando sede nella disciplina processuale della separazione, sono estensibili anche al processo di divorzio. Ad esempio l’art. 708 comma 4 c.p.c. riguardante il reclamo avverso i provvedimenti presidenziali provvisori, oppure l’art. 709 ter c.p.c. in ordine all’intervento del giudice in caso di conflitti sull’esercizio della responsabilità genitoriale, nelle limitate ipotesi in cui le parti dell’unione civile siano anche genitori (per riconoscimento di una sentenza straniera di adozione ovvero per adozione ex art. 44 lett. d) della l. 184/83).

Sgombrato il campo da questi dubbi, passiamo ad esaminare come avviene lo scioglimento dell’unione civile per volontà di una o di entrambe le parti.

Possiamo dire che il comma 24 della legge in esame ha “aggiunto” una causa di scioglimento tra quelle previste dall’art. 3 della legge sul divorzio valevole solo per le unioni civili e cioè la dichiarazione (resa dinanzi all’ufficiale dello stato civile anche disgiuntamente da una delle parti) di voler sciogliere l’unione.

Questa dichiarazione, lungi dal provocare lo scioglimento o comunque avere effetti dissolutivi ex uno latere allorché siano passati tre mesi dalla data della manifestazione di volontà, costituisce invero il primo step attraverso il quale le parti dell’unione civile potranno poi accedere alle procedure di scioglimento (in via giudiziale, tramite negoziazione assistita dagli avvocati, ovvero con dichiarazione dinanzi al Sindaco quale ufficiale dello stato civile).

In pratica, le parti dell’unione civile possono ricorrere a tutte le vie permesse ai coniugi per divorziare, a condizione che almeno una di esse abbia previamente dichiarato di voler sciogliere il vincolo e siano decorsi almeno tre mesi da tale dichiarazione. Dispone infatti il comma 24 che decorsi tre mesi dalla dichiarazione di volontà è possibile proporre la domanda di scioglimento.

Il termine “domanda” non deve fuorviare, poiché anche qui sembra utilizzato in maniera a-tecnica.

La preventiva dichiarazione costituisce infatti condizione giuridica sia per proporre la domanda giudiziale di divorzio (nella forma contenziosa disciplinata dall’art. 4 commi 1-4 L. 898/70 o nella forma congiunta di cui all’ultimo comma del medesimo articolo), sia per accedere alle procedure alternative e degiurisdizionalizzate di cui agli artt. 6 (negoziazione assistita dagli avvocati) e 12 (accordo di divorzio concluso innanzi al sindaco quale ufficiale dello stato civile) del D.L. 132/14 conv. in L. 162/2014.

Quindi l’iter per sciogliere l’unione prevede questa prima dichiarazione di intenti (anche unilaterale) formulata dinanzi all’ufficiale dello stato civile.

A tal proposito si segnala che attualmente il decreto “ponte” DPCM n. 144 del 23.7.2016 non contempla alcuna “annotazione” di questa prima dichiarazione, mentre il formulario di cui al DM 28.7.2016 ne contempla la formula al n. 10.

Nella circolare n. 15 del 28.7.2016 del Ministero dell’Interno si legge inoltre che “fermo restando il compito dell’ufficiale dello stato civile di redigere processo verbale della volontà di scioglimento” si potrà fare ricorso alle “già sperimentate procedure semplificate” di cui agli artt. 6 e 12 del DL n. 132/2014. Da intendere nel senso che è consentito all’ufficiale dello stato civile di procedere alle annotazioni come già previsto per i coniugi che ricorrano a tali procedure.

Sembrerebbe esserci (ma il condizionale è d’obbligo) una sostanziale sovrapposizione delle procedure allorché le parti dell’unione civile optino di sciogliere il vincolo ricorrendo all’accordo dinanzi al sindaco quale ufficiale di stato civile, ma così non è.

La dichiarazione prevista dal comma 24 è solo una manifestazione di volontà e non un accordo in senso tecnico, tant’è che si ammette la dichiarazione disgiunta.

Né il procedimento di cui al comma 24 è particolarmente formalizzato, come invece previsto dall’art. 12 citato, dove si legge che l’ufficiale dello stato civile riceve da “ciascuna delle parti” la dichiarazione di voler ottenere lo scioglimento del vincolo “secondo condizioni tra di esse concordate”, e poi precisa che “l’accordo tiene luogo dei provvedimenti giudiziali” che definiscono i procedimenti di scioglimento del matrimonio. E’ inoltre specificato che “l’atto che contiene l’accordo è compilato e sottoscritto immediatamente dopo il ricevimento delle dichiarazioni”. Perché poi si realizzino gli effetti dissolutivi del vincolo, con conseguente annotazione nei registri dello stato civile, occorre un’ulteriore atto negoziale, la “conferma” (da effettuarsi dinanzi allo stesso ufficiale di stato civile non prima di un mese).

Se dovessimo ritenere coincidenti le dichiarazioni di cui al comma 24 e quelle di cui all’art. 12 ci perderemmo un importante elemento, e cioè la possibilità per le parti dell’unione civile di “concordare” le condizioni del loro divorzio dinanzi all’ufficiale dello stato civile.

Non ritenendo coincidenti le due dichiarazioni, ci si chiede allora perché i coniugi, a differenza delle parti dell’unione civile, possano ottenere in un lasso di “riflessione” minimo di 30 giorni, lo scioglimento del vincolo e una disciplina concordata dei loro rapporti post-coniugali.

Ai sensi del comma 24, le parti dell’unione civile dovranno infatti:

1) prima dichiarare di volersi sciogliere (senza alcun accordo sulle condizioni);

2) dovranno poi attendere almeno tre mesi;

3) potranno quindi ricominciare l’iter dinanzi al medesimo ufficiale di stato civile, questa volta muniti di un accordo sulle condizioni (che “tiene luogo dei provvedimenti giudiziali” ex art. 12 comma 3 D.L. 132/2014);

4) decorsi ulteriori 30 giorni, potranno quindi “confermare” il loro accordo, facendo così finalmente scattare l’obbligo di “annotazione” negli atti dello stato civile (compreso il registro provvisorio delle unioni civili previsto dal decreto ponte).

Una spiegazione plausibile – e costituzionalmente orientata – deve partire dall’assunto che la dichiarazione di intenti di cui al comma 24 costituisce semplicemente una condicio iuris per l’accesso alle fasi successive e conservi questo limitato effetto qualora le parti non procedano poi – decorsi i tre mesi di legge – a sciogliere la loro unione attraverso un procedimento giudiziale o extragiudiziale.

L’unione, medio tempore, rimane valida e efficace e così anche persiste il regime patrimoniale della comunione legale. Potrebbe al più discutersi della configurabilità, in questo caso, della “legittima causa” di sospensione dell’obbligo di coabitazione di cui al comma 2 dell’art. 146 c.c. (applicabile all’unione in virtù del richiamo di tale disposizione nel comma 19).

Se però persiste la volontà di sciogliere il vincolo, decorsi i tre mesi e fino a un tempo indeterminato, le parti dell’unione civile avranno sempre aperta la scelta di procedere allo scioglimento ex art. 4 l. divorzio (divorzio contenzioso o a domanda congiunta) ovvero tramite accordo davanti al sindaco quale ufficiale di stato civile ex art. 12 DL 132/2014 od infine a mezzo di negoziazione assistita dagli avvocati ex art. 6 dello stesso DL.

Il termine di cui al comma 24 sta infatti “fuori” da tali procedure e caratterizza lo scioglimento delle sole unioni civili, in considerazione del regime “speciale” per esse previsto dal legislatore e della “specificità” che egli ha voluto imprimere a tali formazioni rispetto al matrimonio. Ed è proprio tale specificità che “giustifica”, sotto il profilo della costituzionalità della disciplina, la previsione differenziata di tempi e condizioni attraverso i quali i coniugi, da un lato, e le parti dell’unione civile, dall’altro, accedono allo scioglimento del vincolo.

5. Il divieto di “patti di trasferimento patrimoniale” (art. 12 D.L. 132/2014)

Nello scioglimento concordato dinanzi all’ufficiale dello stato civile le parti dell’unione (e i coniugi) non possono inserire nel loro accordo “patti di trasferimento patrimoniale” giusto il divieto contenuto nel terzo comma dell’art. 12 citato.

Questa disposizione è stata oggetto di interpretazione “ondivaga” da parte del Ministero dell’Interno, che dapprima ha ritenuto di escludere tutti gli accordi di tipo economico, anche quelli che prevedano la corresponsione di un assegno periodico di mantenimento per la parte “più debole” (cfr. circolari n. 16 del 1° ottobre 2014 e n. 19 del 28 novembre 2014), e successivamente ha adottato un’interpretazione più aperta (circolare n. 6 del 24 aprile 2015), ammettendo tale tipo di pattuizioni purché “non produttive di effetti traslativi di diritti reali” e circoscrivendo il divieto ai soli “trasferimenti di beni una tantum” (del tipo di quelli soggetti alla valutazione di equità del tribunale ex art. 5 comma 8 L. div.)[7].

Sul punto si è pronunciato il TAR (sentenza 7813 del 7 luglio 2016) che ha annullato la circolare n. 6/2015 citata, ritenendo che il divieto debba essere inteso nella sua massima estensione e quindi impedire pattuizioni patrimoniali tout court. Più recentemente il Consiglio di Stato (con la sentenza n. 4478 del 13 ottobre 2016), ha invece ritenuto corretta l’interpretazione “possibilista” del Ministero, annullando la sentenza del TAR[8].

Il limite di cui alla disposizione, secondo il Consiglio di Stato, concerne propriamente “i contratti con effetti reali” che ai sensi dell’art. 1376 c.c. “hanno ad oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata, la costituzione o il trasferimento di un diritto reale ovvero il trasferimento di un altro diritto”, nei quali “la proprietà o il diritto si trasmettono e si acquistano per effetto del consenso delle parti legittimamente manifestato” (cd. principio consensualistico).

Si legge in tale sentenza:

“Il divieto dei «patti di trasferimento immobiliare», invece, mira esclusivamente ad evitare che con gli accordi stipulati in seno a tale procedura, anche per i limitati poteri di verifica che l’ufficiale di stato civile può esercitare nell’ambito delle proprie competenze, possano realizzarsi una volta per tutte trasferimenti di beni (o di altri diritti) che, per la loro particolare rilevanza socio-economica, incidono irreversibilmente sul patrimonio dei coniugi e, in quanto tali, richiedono un controllo non solo formale – si pensi alle verifiche notarili o agli obblighi fiscali connessi alle compravendite di beni immobili – ma anche sostanziale sulla ‘equità’ di tali condizioni, inteso a scongiurare una definitiva compromissione economica del coniuge più debole”.

Alla luce di queste considerazioni dovrebbe, per converso, ammettersi che in sede di procedura ex art. 12 cit. le parti possano anche accordarsi (si badi, con efficacia esclusivamente “obbligatoria”!) impegnandosi reciprocamente ad un futuro trasferimento, quello sì “ad efficacia reale”. In tal caso potranno poi “eseguire” tale impegno rivolgendosi ad un notaio per la formalizzazione del relativo atto e per tutti gli adempimenti contenutistici e pubblicitari del caso.

Se inoltre vorranno beneficiare dell’agevolazione fiscale di cui all’art. 19 L. n. 74/1987 (secondo cui "tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili del matrimonio nonché ai procedimenti anche esecutivi e cautelari diretti ad ottenere la corresponsione o la revisione degli assegni di cui agli artt. 5 e 6 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, sono esenti dall'imposta di bollo, di registro e da ogni altra tassa") le parti dovranno avere anche l’accortezza di inserire nel testo dell’accordo a contenuto meramente obbligatorio la “clausoletta” (imprescindibilmente richiesta dall’Agenzia delle Entrate, da ultimo per gli accordi di negoziazione assistita cfr. Risoluzione 65/E del 16.7.2015) che “le disposizioni economiche ivi contenute sono «funzionali e indispensabili ai fini della risoluzione della crisi coniugale (rectius crisi dell’unione civile)»”.

6. Il ruolo del notaio nell’ambito della negoziazione assistita.

L’argomento richiederebbe un intero incontro di studio ed esula dall’argomento assegnatomi. Vale però la pena dedicargli qualche sommaria annotazione.

Può certamente affermarsi che in tale ambito è particolarmente auspicabile sviluppare una sinergia tra gli avvocati (cui è rimessa l’assistenza delle parti nella fase conciliativa, la certificazione dell’autografia delle firme e della conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico, la procedura per l’ottenimento delle autorizzazioni e/o dei nulla-osta della Procura della Repubblica, l’invio degli accordi autorizzati all’ufficiale dello stato civile) e il notaio (quale pubblico ufficiale autorizzato cui è riservato in via esclusiva - ex art. 5 comma 3 D.L. 132/2014[9] - il potere di autenticazione dell’accordo quando con esso le parti abbiano concluso un negozio soggetto a trascrizione ex art. 2643 c.c.).

E’ vero infatti che la partecipazione del notaio all’accordo di negoziazione assistita non è obbligatoria ai fini della sua validità, a meno che le parti concludano accordi per i quali è richiesta la forma pubblica ad substantiam. E’ però certamente opportuna, se si vuole evitare che medio tempore (cioè tra la conclusione dell’accordo e la formalizzazione ai fini della trascrizione) intervengano vicende che potrebbero vanificare il raggiungimento degli obiettivi prefissatisi dalle parti (ripensamenti, apposizioni di vincoli ipotecari sui beni oggetto di accordo, esecuzioni da parte dei creditori individuali ecc.).

Allorché il notaio sia richiesto dell’autenticazione delle sottoscrizioni, il suo intervento non è peraltro limitato ad un’opera di mera imputazione della firma ad un determinato soggetto (ex art. 2703 comma 2 c.c.) ma si estende al controllo di legittimità e all’adempimento degli obblighi informativi in ordine agli effetti che discendono dall’accordo concluso e all’eventuale presenza di formalità pregiudizievoli.

In sede di autentica degli accordi negoziati, se le parti hanno concluso patti di natura esclusivamente obbligatoria, non dovrebbero porsi eccessivi problemi nella saldatura tra l’attività di negoziazione svolta dagli avvocati e l’opera professionale richiesta al notaio, salvo verificare l’avvenuta espressa funzionalizzazione degli impegni assunti alla soluzione della vicenda familiare (pena la perdita dei benefici fiscali di cui sopra).

In questo caso il successivo atto stipulato dinanzi al notaio sarà evidentemente un nuovo negozio, di tipo solutorio, con causa esterna “familiare” (quale appunto la composizione della crisi familiare). Tale caratteristica della causa dovrà necessariamente essere richiamata nel contratto stipulato in adempimento dei precedenti accordi negoziati, sia per la giustificazione causale del negozio sia ai fini dei benefici fiscali di cui all’art. 19 della L. 74/87.

La saldatura sopra auspicata diventa invece piuttosto critica quando le parti concludano accordi ad efficacia reale immediata poiché, in molti casi, l’accordo sottoscritto in sede di negoziazione manca dei requisiti di forma e sostanza richiesti dalla complessa normativa applicabile (menzioni obbligatorie, esatta definizione dei dati catastali, autorizzazioni, certificazioni ecc.) tali da impedire al notaio di procedere responsabilmente all’autentica ex art. 5 D.L. dell’accordo negoziato.

Il notaio in questi casi predispone normalmente un autonomo atto di convalida o riproduttivo dell’accordo, munendolo di tutti i requisiti richiesti dalla legge (si tratterà all’evidenza di un negozio ripetitivo, nel quale le parti cioè ripetono i termini dell’accordo precedentemente raggiunto[10]).

Ricorrono le stesse problematiche finora sorte, anche con riferimento alla forma necessaria per la trascrizione, allorché l’accordo venga trasfuso in sede giudiziale nel verbale di separazione consensuale e si voglia procedere alla pubblicità nei registri immobiliari.

Risulta infatti alquanto difficile sostenere in concreto che sia comunque soddisfatto il requisito di forma di cui all’art. 2657 c.c. ai fini della trascrizione, sull’assunto che si possa attribuire al verbale di separazione natura di atto pubblico, in quanto redatto dal Cancelliere quale pubblico ufficiale [11]. Accade invece molto più di frequente che nella prassi i coniugi siano caldamente invitati da parte del Presidente ad inserire nel verbale di separazione dichiarazioni negoziali ad efficacia esclusivamente obbligatoria, accompagnate dall’impegno comune a stipulare l’accordo raggiunto dinanzi a un notaio.

7. Il dies a quo dello scioglimento della comunione legale tra le parti dell’unione civile.

A questo punto vale la pena fare una piccola carrellata per verificare qual è il momento, nelle diverse procedure, in cui possiamo dire operante l’art. 191 c.c. e quindi sciolta la comunione legale (il comma 13 richiama quale regime legale delle unioni civili la comunione dei beni).

Come si ricorderà, la legge n. 55/2015 (popolarmente definita legge sul divorzio breve) ha inserito un nuovo comma (il secondo) nell’enunciato di detta disposizione del codice, anticipando il momento dello scioglimento della comunione conseguente alla separazione personale dei coniugi. La regola prima vigente, facendo genericamente riferimento alla “separazione personale” legava tale effetto al passaggio in giudicato della sentenza di separazione giudiziale, ovvero all’omologa del verbale della separazione consensuale, giusto l’art. 158 c.c. secondo cui “la separazione per il solo consenso dei coniugi non ha effetto senza l’omologazione del giudice” (con i conseguenti problemi – in quest’ultima ipotesi – riguardo al momento in cui poteva ritenersi “passato in giudicato” il decreto di omologazione – quale provvedimento di volontaria giurisdizione sottoposto al regime del reclamo ex art. 739 c.p.c.).

La nuova disposizione (co. 2 dell’art. 191 c.c.) sancisce che “nel caso di separazione personale la comunione tra i coniugi si scioglie nel momento in cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, ovvero dalla data di sottoscrizione del processo verbale di separazione consensuale dei coniugi dinanzi al presidente, purché omologato. L’ordinanza con la quale i coniugi sono autorizzati a vivere separati è comunicata all’ufficiale dello stato civile ai fini dell’annotazione dello scioglimento della comunione”.

Questo secondo comma non verrà infatti mai in considerazione nelle unioni civili. Ciò con buona pace di tutti quei problemi applicativi che sono sorti immediatamente dopo la novellazione dell’art. 191 c.c. con riferimento all’esatto momento in cui poteva ritenersi senz’altro sciolta la comunione nella separazione consensuale, stante l’effetto solutorio conseguente alla sottoscrizione del processo verbale e l’apposizione di una sorta di “condizione legale” collegata all’evento “omologazione”. Ci si chiedeva infatti se tale condizione fosse configurabile come risolutiva (secondo l’opinione prevalente) ovvero sospensiva (secondo l’opinione minoritaria) rispetto all’effetto solutorio.

Problematiche meno complesse si presentano per lo scioglimento della comunione legale tra le parti dell’unione civile, dovendosi applicare il comma 1 dell’art. 191 c.c. in virtù del quale la comunione si scioglie con lo scioglimento del matrimonio (rectius dell’unione civile).

Quindi l’effetto dello scioglimento della comunione legale si verifica:

1) in caso di scioglimento per via giudiziale, con il passaggio in giudicato della sentenza di scioglimento (debitamente annotata nei registri dello stato civile e a margine dell’atto di costituzione dell’unione civile). Si rammenta a questo fine che il secondo comma dell’art. 10 della l. 898/1970 dispone che lo scioglimento pronunciato con la sentenza passata in giudicato ha efficacia “a tutti gli effetti civili” dal giorno dell’annotazione della stessa nei registri dello stato civile del Comune presso cui fu trascritto il matrimonio (rectius l’unione civile);

2) in caso di divorzio dinanzi al sindaco (ex art. 12 D.L. 132/14), al momento della sottoscrizione dell’accordo, purché esso sia stato confermato dinanzi al medesimo ufficiale dello stato civile (che lo avrà anche annotato nei registri dello stato civile e a margine dell’atto di costituzione dell’unione civile); la mancata conferma costituisce una condizione risolutiva rispetto agli effetti dell’accordo. D’altronde, l’ultima parte del comma 3 dell’art. 12 citato fa obbligo all’ufficiale dello stato civile di procedere all’annotazione dello scioglimento del vincolo a margine dell’atto di costituzione e a margine degli atti di nascita delle parti solo all’esito del completamento della fattispecie attraverso la conferma;

3) in caso di negoziazione assistita dagli avvocati, alla data dell’accordo certificata da questi ultimi. Anche qui l’effetto dello scioglimento della comunione legale è immediato, ma sottoposto alla condizione legale risolutiva del mancato rilascio, da parte della Procura della Repubblica, del nullaosta o dell’autorizzazione richiesti dall’art. 6 D.L. 132/2014. L’accordo, autorizzato o comunque munito del nulla osta della Procura della Repubblica, viene inviato a cura degli avvocati all’ufficiale dello stato civile che provvede alla successiva annotazione a margine dell’atto di costituzione e a margine degli atti di nascita delle parti.

Quanto sostenuto al punto 3) trova conferma anche nella circolare del Ministero dell’Interno n. 16/2014 citata, ove si legge che “la data dalla quale decorreranno gli effetti degli accordi in esame è quella della « data certificata» negli accordi stessi. Tale data è quella che dovrà essere riportata nelle annotazioni ed indicata nella scheda anagrafica individuale degli interessati”.

8. Scioglimento dell’unione civile per rettificazione di attribuzione di sesso (comma 26).

Si tratta di un’ipotesi del tutto peculiare di scioglimento dell’unione che dovrebbe avvenire in maniera “automatica”, a prescindere dalla domanda delle parti.

A norma dell’art. 31 comma 5 del d. lgs. n. 150 del 1.9.2011, con la sentenza che accoglie la domanda di rettificazione di attribuzione di sesso il tribunale ordina all'ufficiale di stato civile del comune dove è stato compilato l'atto di nascita di effettuare la rettificazione nel relativo registro. Si presume (ma verrà chiarito dai decreti legislativi di cui al comma 28 della legge in esame) che contestualmente a tale incombente l’ufficiale dello stato civile annoterà anche lo scioglimento dell’unione civile nel relativo registro delle unioni civili.

Il comma 26 ripropone per le unioni civili, in maniera inversa, l’analoga questione che aveva condotto la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 170 dell’11 giugno 2014[12], a dichiarare l’illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della l. 14 aprile 1982 n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), nella parte in cui non prevedevano la possibilità per la coppia coniugale, che subiva lo scioglimento in via automatica del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione, di mantenere in vita un rapporto di coppia in una forma giuridicamente regolata.

Questa sentenza, in pratica, aveva ritenuto illegittimo il meccanismo “automatico” di scioglimento del matrimonio poiché non era offerta alla coppia la possibilità di accedere ad una regolamentazione giuridica che facesse salvi i medesimi diritti e doveri attinenti allo status precedentemente posseduto.

Gli strali della Consulta si erano rivolti anche contro l’art. 31 del d. lgs. n. 150 del 1.9.2011 (decreto sulla semplificazione dei riti civili) che disciplina oggi i procedimenti in materia di rettificazione di attribuzione di sesso, poiché nulla aveva innovato tale disciplina rispetto all’automatismo denunciato, disciplinato dalla l. n. 164/1982.

Con riguardo alla specifica norma applicabile alle unioni civili (comma 26), si rileva che una volta estinta la precedente unione (a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione e della sua annotazione nei registri di stato civile) le parti potranno sì accedere all’istituto familiare del matrimonio, non più loro impedito in virtù dell’intervenuta diversità di sesso, ma ciò non pare scongiurare quei profili di incostituzionalità rilevati dalla citata sentenza della Consulta.

Si tratterebbe infatti di un “nuovo” matrimonio che non sembra soddisfare la condizione richiesta dal giudice delle leggi e cioè: “mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli i diritti ed obblighi della coppia medesima, che fa salvo e tutela il complesso di diritti e obblighi sorti in virtù della precedente forma giuridica” (cfr. C. Cost. 170/2014).

 

* Relazione presentata nella giornata di studio svoltasi presso il Consiglio Notarile di Roma l’11 novembre 2016.

[1] Cfr. Trib. min. Roma 22 ottobre 2015; confermata da C. App. Roma 23 dicembre 2015; Trib. min. Roma 30 dicembre 2015; Cass. 22 giugno 2016 n. 12962; contra Trib. min. Piemonte e Valle d’Aosta 11 settembre 2015.

[2] C. App. Milano 1 dicembre 2015 n. 2543; C. App. Napoli 30 maggio 2016.

[3] Cfr. BONILINI, La successione mortis causa della persona “unita civilmente” e del convivente di fatto, in Famiglia e diritto, 2016, 10, p. 984.

[4] Art. 2122 c.c. In caso di morte del prestatore di lavoro, le indennità indicate dagli articoli 2118 e 2120 devono corrispondersi al coniuge, ai figli e, se vivevano a carico del prestatore di lavoro, ai parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo grado.

La ripartizione delle indennità, se non vi è accordo tra gli aventi diritto, deve farsi secondo il bisogno di ciascuno.

In mancanza delle persone indicate nel primo comma, le indennità sono attribuite secondo le norme della successione legittima.

È nullo ogni patto anteriore alla morte del prestatore di lavoro circa l'attribuzione e la ripartizione delle indennità.

[5] Cfr. M. Sesta, Unione civile e convivenze: dall’unicità alla pluralità dei legami di coppia, in Giur. It., 2016, p.1795

[6] G. Oberto, I regimi patrimoniali delle unioni civili, in Giur. It., 2016, p.1806.

[7] Tutte le circolari citate sono reperibili su www.servizidemografici.interno.it

[8] Entrambe le sentenze sono reperibili su www.giustizia-amministrativa.it

[9] Art. 5 D.L. 132/14 Esecutività dell'accordo raggiunto a seguito della convenzione e trascrizione.

1. L'accordo che compone la controversia, sottoscritto dalle parti e dagli avvocati che le assistono, costituisce titolo esecutivo e per l'iscrizione di ipoteca giudiziale.

2. Gli avvocati certificano l'autografia delle firme e la conformità dell'accordo alle norme imperative e all'ordine pubblico.

2-bis. L'accordo di cui al comma 1 deve essere integralmente trascritto nel precetto ai sensi dell'articolo 480, secondo comma, del codice di procedura civile.

3. Se con l'accordo le parti concludono uno dei contratti o compiono uno degli atti soggetti a trascrizione, per procedere alla trascrizione dello stesso la sottoscrizione del processo verbale di accordo deve essere autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato.

4. Costituisce illecito deontologico per l'avvocato impugnare un accordo alla cui redazione ha partecipato.

4-bis. All'articolo 12, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, dopo il secondo periodo è inserito il seguente: "L'accordo di cui al periodo precedente deve essere integralmente trascritto nel precetto ai sensi dell'articolo 480, secondo comma, del codice di procedura civile".

[10] Sulla distinzione tra ripetizione o rinegoziazione dell’atto dinanzi al notaio, in attuazione dell’accordo raggiunto in sede di mediazione civile e commerciale ex D. Lgs. ,. 28/2010 cfr. M. Leo e E. Fabiani, in Manuale della mediazione civile e commerciale, a cura di M.L. Cenni - E. Fabiani – M. Leo, Napoli, 2010.

[11] Nonostante simile tesi sia stata affermata anche dalla C. Cassazione nella sentenza n. 4306 del 15 maggio 1996 secondo cui “Sono pienamente valide le clausole dell'accordo di separazione che riconoscano ad uno o ad entrambi i coniugi la proprietà esclusiva di beni mobili o immobili, ovvero ne operino il trasferimento a favore di uno di essi al fine di assicurarne il mantenimento; il suddetto accordo di separazione, in quanto inserito nel verbale d'udienza (redatto da ausiliario del giudice e destinato a far fede di ciò che in esso è attestato), assume forma di atto pubblico ai sensi e per gli effetti dell'art. 2699 c.c., e, ove implichi il trasferimento di diritti reali immobiliari, costituisce, dopo l'omologazione che lo rende efficace, titolo per la trascrizione a norma dell'art. 2657 c.c., senza che la validità di trasferimenti siffatti sia esclusa dal fatto che i relativi beni ricadono nella comunione legale tra coniugi”.

[12] Reperibile su www.giurcost.org

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